sant’ Antonio dei ridimensionati

Non si sa se per cattiva sorte del Legislatore o per raffinato effetto del dispositivo disciplinare, l’esperienza del carcere pare essere un viatico eccellente per la santità. Se consideriamo, per brevità e senza scendere nella casistica minuta, i soli esempi di Francesco e Ignazio di Loyola, prigionieri dopo una battaglia, si comincia ad intuire la cruciale importanza della privazione di libertà come esperienza decisiva verso la perfezione spirituale e la comunione con dio.  

A tale proposito vi è una bella leggenda che si racconta da queste parti. Trattasi di quel tipo di storielle che potete trovare nella pubblicistica locale, nei saggi dei preti eruditi del tempo che fu, degli impiegati del Comune di oggi, che il pomeriggio (o anche la mattina) si dilettano di memorie del territorio e che recano tipicamente titoli del genere: Il Comune dal ‘500 ad oggi (che confessa già con le sue 200 pagine che in mezzo millennio non deve essere accaduto poi molto); oppure Arte e ricordi storici o anche Memorie o Considerazioni storiche (Istoriche se sono del secolo XIX, Historiche del XVIII); Toponomastica del Comune; Proverbi e detti del Comune (sono i best seller); poi gli orgogli patrii e quindi la serie de: Passaggi di Imperatori e Regine (verso altri luoghi); Attraversamenti di Annibale (ma sempre di prescia); I deputati/senatori del Regno/Repubblica nati nel Comune; La famosa qualità di olio del Comune nelle testimonianze (una riga e mezza) del De agri cultura di Catone; Grandi giuristi/scienziati del Comune, e poi I caduti – tanti – della Prima Guerra Mondiale  – con un certo stupore che l’anodino carattere locale non sia stato risparmiato dalla guerra. 

Secondo questa leggenda, dicevamo, c’erano una volta le classi sociali in lotta fra di loro: una guerra sanguinaria e terribile che affliggeva campagne e città. Le bande armate erano all’incirca 300, 40.000 furono le persone inquisite dalla magistratura, 6.000 i condannati, 8.000 gli attentati che sconvolsero l’ordine e la pace sociale. Il paese versava nella più totale anarchia e sembrava che non vi fosse soluzione a questa spirale di sangue e violenza. 

Un bel dì – precisamente il sette aprile dell’anno precedente all’inizio dell’Età della Pace – una bella ragazza dai capelli corvini, gli occhi e i sopraccigli neri sulla pelle bianchissima come i semitoni su un pianoforte, come suole accadere, s’era innamorata perdutamente di Alfonso, un biondo dagli occhi cerulei e la barba rossiccia, che, in quel tempo mitico in cui si riusciva a scopare grazie a Lenin, l’aveva ammaliata con lunghe citazioni da Stato e rivoluzione e l’aveva convinta ad entrare nelle TRAP (Truppe Rosse Armate Proletarie). Abbracciata la clandestinità, in quel torbido di eros e politica, la fanciulla e Alfonso sparavano il giorno e ballavano la sera, soli e illegali, nel soggiorno dell’appartamento in affitto, davanti al telegiornale, sussurrandosi all’orecchio “o ballano tutti, o non balla nessuno” e tutto era come in un film di Marco Bellocchio, ma con più bestemmie e meno psicoanalisi. Sfortunatamente, Alfonso si era poi fatto sparare in testa in uno scontro a fuoco con gli sbirri, lasciando la fanciulla nelle mani della giustizia, con rapine, attentati, omicidi a carico e un figlio nella pancia. 

Il figlio biondo della bella ragazza dai capelli corvini, dunque, nacque in carcere e vi rimase cinque anni, nutrito dall’allucinato risentimento di una guerrigliera sconfitta e madre controvoglia*. Un carrozzino e una copertina di lana con sopra una stella a cinque punte furono i regali che le compagne militanti riuscirono a farle avere. L’odore di muffa e moca e sigarette, la parete giallastra con una foto del Che morto ritagliata da qualche rivista, la voce rara e rauca di sua madre, le sue mani morbide e presenti, le chiacchiere delle vicine di cella, furono gli archetipi sensoriali del bambino. Le detenute avevano a cuore quel batuffolo biondo che era un’intrusione di tenerezza nello squallore del carcere e lo coccolavano, insieme con la sua mamma, che chiamavano ‘marunnella’ e quel suo figlio gesubambino, venuto al mondo per crescere al freddo e al gelo di una cella dove invece del bue e dell’asinello ci stavano due signore carcerate per camorra e tante maddalene: e tutto era come in una canzone di Lucio Dalla, però con più bestemmie e cinque omicidi a carico della madre. 

Il bambino, comunque, dai due anni compiuti, ogni sabato potè uscire con i volontari e finalmente cominciare la scoperta del mondo. Un mondo che proprio in quei giorni si stava riempendo di insegne di felicità luminose, di soluzioni di plastica a problemi che non si erano mai avvertiti, di centri commerciali pronti ad accogliere i fedeli alla domenica, di chiese brutte a forma missile o tenda da circo o grosso garage; di videogiochi, panini e merendine. Finché un giorno gli assistenti sociali assicurarono che il bambino avrebbe preferito il mondo a sua madre e sua madre dovette accettare questa nuova sentenza e lasciare il suo bambino biondo alla sorella, peraltro assai religiosa, e che poteva vivere libera nel mondo e crescere quel gesubambino come un normale cristiano in mezzo ad altri cristiani normali.

* Il Legislatore non ha mai considerato un’urgenza risolvere la situazione delle ree puerpere e dei nascituri, destinati a condividere la cella con la madre finché la madre lo vorrà. Il Legislatore, che è figlio di mamma pure lui, ha lasciato alla madre la scelta di tenere il figlio con sé. Ma la madre carceranda, non avendo quasi mai una vera scelta, essendo spesso sola, senza parenti, con un marito in carcere o morto, è costretta a tenere il figlio. E dunque i bambini nati in carcere – né tanti né pochi, ma sempre costanti e comunque troppi per tale obbrobrio penale – restano in carcere per diversi anni. Non si fa una legge sui bambini in carcere per un motivo molto semplice: si ha paura che ogni donna sotto processo si faccia ingravidare e quindi riceva sconti di pena o un trattamento più lieve. È il rovescio del datore di lavoro che si assicura che la ragazza da assumere non abbia intenzione di diventare mamma, almeno non per ora. Una di quelle intersezioni illuminanti sui rapporti tra capitale e sistema normativo. Ma in tanto disgustosi affari c’è qualcosa di buono e che terremo a mente: la maternità mantiene e sempre manterrà un suo pericoloso potenziale eversivo.