quel ramo dell’agro di C.

L’acciaio del traliccio dell’alta tensione arrostiva le mani sotto il sole della canicola. Antonio era gracile, ossuto, e nonostante il caldo feroce non era eccessivamente sudato, eccezion fatta per le mani, le quali in ogni caso avrebbero continuato a bagnarsi anche se fosse stato gennaio invece di agosto. 

Tra i rami di quell’enorme e spoglio abete di ferro, la presa era insicura e la salita sempre più rischiosa. Antonio, d’altra parte, non si curava affatto del pericolo ed era già contento di aver compiuto abbastanza percorso con poca fatica e pochissimo sudore, cosicché sua madre non avrebbe avuto di che rimproverarlo. 

Quando giunse a metà della scalata, tutt’attorno a quel pilone gravido delle correnti che elettrizzavano la piana, si era radunato già un piccolo pubblico di curiosi, naso all’aria, che abbassavano il capo di tanto in tanto per incontrare l’espressione ebete del vicino.

I primi ad accorgersi di Antonio erano stati gli automobilisti che percorrevano la fondovalle, la strada statale che fiancheggia il fiume Amente per tutta la Regione e che dall’acqua, dalle frane, dagli smottamenti di un terreno friabile e infido è continuamente sfiancata fin dai tempi della sua scriteriata realizzazione. La statale amentina sorge dalle montagne insieme al fiume ed è l’arteria essenziale della Regione. Questa straduccia a due corsie per centocinquanta km che portano al mare, piena di curve, continuamente assillata da accessi privati e svincoli per paesini minuscoli, scarsamente illuminata di notte, contribuisce con efficacia alla già altissima riduzione demografica della Regione, in avvincente competizione con disoccupazione e cancro.

Accorsero poi gli abitanti dei villini e delle case sorte assai prossime al terreno dove si trovava piantato il traliccio e, infine, a piccoli gruppi come i pastori nei presepi, cominciarono a scendere gli abitanti del paese, o città, a seconda che i suoi occupanti in continua diminuzione si considerino troppi per la prima denominazione e pochi per la seconda. In effetti, il Comune (è preferibile chiamarlo semplicemente così), mancando delle attrazioni e delle possibilità della città pur occupando un’area considerevole di territorio e possedendo del paese i tratti asfittici ma non il folklore, si sottrae a etichette e definizioni in virtù di una speciale vocazione all’insignificanza.  

Spalmato sulla costa della collina che forma, assieme a quella che la affronta a sud, la modesta gola che aveva permesso la realizzazione della diga e dell’invaso artificiale negli anni Settanta, il Comune possiede una sua caratteristica skyline, con la parte più antica che s’addensa sul vertice del promontorio che volge al lago e culmina in un castelluccio piuttosto pittoresco, adeguata icona da cartolina a patto d’essere fotografato dalla giusta posizione. Più in basso del centro storico medievale, oggi quasi disabitato, e separato da esso da una costa di roccia più scoscesa e rosicchiata come cava finché fu possibile scavarla senza che sprofondasse il borgo sovrastante, sorge la parte moderna del Comune, il cui nucleo originario consiste in un ordinatissimo agglomerato di palazzi di epoca fascista, progettato per accogliere operai ed impiegati dell’allora nascente nucleo industriale di Santa Barbara

In quel punto le linee del paesaggio sono quelle morbide della parte bassa della Regione, con i campi di agosto pungenti di stoppie, la terra crepata in zolle enormi e le due colline come ginocchia di femmina che si stringono degradando leggermente verso il triangolo scuro della diga, sulla quale si erge il lungo viadotto che poi si affloscia nella piana amentina e attraversa la Regione fino al mare.